Intervista a Enrico Rava, tra passato e presente
“Lester! Omaggio a Lester Bowie” ha debuttato a Roma all’Auditorium alla fine dello scorso anno. Quali sono stati i motivi che ti hanno portato a focalizzarti su questo personaggio e sulla sua produzione dopo il progetto sull’ultimo Michael Jackson?
Partiamo dal presupposto che questo gruppo, che si chiama Parco della Musica Jazz Lab, è stato da me messo in piedi per farne una formazione stabile dell’Auditorium di Roma.
Così l’Auditorium ha una big band, un gruppo di musica contemporanea e questo gruppo di jazz di media stazza di cui io sono l’ideatore e il direttore. Quindi ho un certo numero di progetti che devo mettere in pratica nel range di due o uno all’anno.
Dopo Michael Jackson si trattava, per l’appunto, di fare un nuovo progetto e a me è venuta voglia di farlo su Lester Bowie, che è uno dei musicisti che io ho amato molto e amo tutt’ora, a parte il fatto che è stato un caro amico. Inoltre è una figura non particolarmente battuta e sfruttata, per così dire, perché tanti si dedicano a diecimila omaggi su Miles Davis, Monk, Parker e via di questo passo.
Lester non è stato invece abbastanza frequentato, mi sembrava perciò giusto ricordarlo per via di musiche bellissime che si adattano perfettamente a questo gruppo. Un gruppo nato anche incidentalmente da una richiesta fattami tempo fa per effettuare un paio di concerti in Emilia.
Poi ci siamo esibiti anche a Roma, alla Casa del Jazz, dove erano presenti anche i responsabili dell’Auditorium. Gli siamo piaciuti molto e mi hanno così proposto di farne una formazione stabile della loro struttura.
A me è sembrata ovviamente una bellissima idea, anche perché tenere in vita un gruppo di dieci, e nel caso di Michael Jackson, dodici persone rende assurda l’idea che dopo un paio di concerti sia finita lì. La cosa importante è che ciò sia accaduto anche in questi tempi di profonda crisi.
Non è facile trovare una struttura che ti metta a completa disposizione sala prove, studio di registrazione, albergo e sala concerti. Tra l’altro abbiamo già fatto e portato in giro molti altri progetti: uno apprezzatissimo su Gershwin, successivamente un altro su brani miei battezzato “Rava Songbook”, poi è stata la volta di “Rava Noir”, in collaborazione con Francesco Tullio Altan che creato una bellissima animazione a fumetti. Infine è arrivato quello su Michael Jackson ed ora questo su Lester. Per i prossimi non so, ci devo ancora pensare un po’ su.
Diciamo che per questo su Lester ho dato l’incarico a Ottolini, così come avvenne per quello su Jackson, mentre in precedenza, per Gershwin e “Rava Songbook”, mi affidai a Dan Kinzelman. Otto aveva già fatto un bel lavoro su Lester Bowie in passato, a parte ciò lui ha anche i Sousaphonix e dunque è molto esperto nell’utilizzare i fiati in una certa maniera, conosce bene i meccanismi e il repertorio di quel particolare tipo di musica. Questa sua esperienza mi ha dato perciò l’opportunità di affidargli l’incarico degli arrangiamenti, un lavoro che fa e che ha svolto sempre magnificamente, dandomi su questo piano molta contentezza e sicurezza.
Hai conosciuto Lester Bowie, ci hai anche suonato in un bel disco Black Saint del 1978 di Marcello Melis “Free To Dance”. Cosa ricordi di lui come persona, ma anche come trombettista solista e leader della Brass Fantasy?Ho suonato parecchio con Lester, e a parte quel disco ho fatto molte altre cose con lui. Lester era un amico dell’Italia, viveva spesso qui da noi, suonava frequentemente con musicisti italiani, soprattutto era molto legato alla Sardegna.
Isio Saba, uno dei suoi amici più intimi e che fu anche il suo agente, era infatti sardo, quindi lo portava moltissimo da quelle parti. Lester era una persona molto divertente, simpatica e spiritosa. Amabile e anche molto colto, ma di una cultura non pedante. Era molto aperto nei confronti della musica e quello che aveva in particolare (e che non tutti sanno) era che poteva e sapeva suonare benissimo ogni cosa. Suonava, per esempio, ottimamente “straight” e il jazz, cosiddetto “ortodosso”, come pochi.
La sua tromba aveva un suono meraviglioso, un po’ simile a quello di Freddie Hubbard.
Tuttavia aveva il pressante desiderio di uscire da questa gabbia dell’ortodossia jazzistica. Quindi risentiva dell’influenza di molti trombettisti, tipo Don Cherry, o di musicisti come Cecil Taylor. Era molto aperto e molto moderno, però con delle radici profonde nella tradizione, non solo del jazz ma anche della “black music” in genere, infatti con Sandro Satta faceva anche delle cose molto funky, tant’è che noi abbiamo due, tre pezzi presi proprio da quegli esperimenti che suonano estremamente funky.
Ci sono addirittura più pezzi funky con questo progetto su Lester di quanti ce ne siano in quello che è stato dedicato a Jackson. Infatti quando ci troviamo a fare degli “encore” a fine spettacolo di quello su Jackson, suoniamo un brano “ultra funky”che è in realtà di Lester Bowie. Devo dire che me piace tantissimo suonare in quel modo, su quel tipo di ritmo.
Certo è una cosa che non farei sempre per tutta la vita, però quando mi ci trovo, la situazione mi diverte tantissimo.
So cosa fare e come muovermi su questi ritmi. Capisco perciò anche il motivo per cui Lester amasse tanto fare queste cose. Possiedono una vitalità e un’energia che non si riscontra in quasi nessun’altra situazione musicale.
Avevo proposto a Manfred Eicher di realizzare “Rava On The Dance Floor” e stranamente lui decise di buttarsi nella cosa. Per questo su Lester non mi è stato invece proposto nulla. So però che Ottolini insiste affinchè la cosa si realizzi.
Al momento ho altre urgenze. Mi preme soprattutto occuparmi del mio prossimo disco con il mio quintetto, che abbiamo inciso live al Birdland di New York lo scorso giugno. In più adesso, a ottobre, con “La Repubblica” usciranno settimanalmente sei miei album, di cui cinque vecchi ECM (tra cui l’unico finora reperibile è “Easy Living” mentre gli altri sono introvabili e da anni fuori catalogo), dischi a cui tengo tantissimo anche per i musicisti che ho avuto vicino, tipo Roswell Rudd, John Abercrombie e Jean-François Jenny-Clark.
Il disco apripista sarà tuttavia quello del concerto, davanti a migliaia di persone, che ho effettuato quest’anno a Torino, in Piazza Castello, con il quintetto accompagnato dall’orchestra del Teatro Regio. Un concerto che reputo sia stato davvero magnifico, dove i miei brani sono stati arrangiati e diretti da Paolo Silvestri e sviluppati a mo’ di una suite intitolata “Rava On The Road”, perché collegata ad un un balletto coreografato da Robert North, ispirato alla Beat Generation letteraria di Kerouac, Corso e Burroughs, che andò in scena a Rovigo diversi anni addietro. Sono pertanto queste le cose a cui ora tengo di più.
In realtà non mi interessa più pubblicare molti dischi nello stesso anno, anche perché ormai il disco, come oggetto e per tutto ciò che vi sta dietro, si sta lentamente avviando al tramonto. Purtroppo, e lo dico veramente con dispiacere, il supporto disco sembra destinato a scomparire. Difficile, ad esempio, trovare oggi anche i negozi di dischi di un tempo Sembra già scontata la tua risposta, ma secondo te qual è la ragione di tale scomparsa? Internet e la musica digitalizzata sotto forma di file?
Certo, indubbiamente. Fai un disco e un attimo dopo lo trovi piratato e in circolazione sul web.
E non è questione neanche di fare differenza tra vinile e CD. Io, per esempio, non ho nostalgia del vinile. Quando per tre settimane ascoltavo a ripetizione un disco in vinile me lo ritrovavo deteriorato e consumato.
Ripeto, il problema è Internet. Dopo due secondi, qualunque cosa uno faccia, questa va a finire gratis su internet, rubata con un atto, secondo me, molto grave di pirateria. Mi chiedo a questo punto fino a quando avremo ancora dei folli che investono dei soldi sulla musica registrata nel modo tradizionale.
Mi risulta anche incomprensibile questa bulimia di voler ascoltare e tenere nell’Ipod diecimila pezzi. Personalmente quando vado viaggio e devo guidare mi piace molto ascoltare musica, ma mi porto tre o quattro CD, ascolto quelli e basta. Già da ragazzino, ancor prima del vinile avevo a che fare con i settantotto giri, supporti di tre minuti e mezzo a facciata.
A quell’epoca chi aveva molti dischi ne possedeva una cinquantina, dunque facendo un semplice calcolo aveva a disposizione circa trecentocinquanta minuti di musica, e bene o male poteva dire di averli ascoltati tutti. Io i dischi di Armstrong, Beiderbecke o Coleman Hawkins quando avevo dodici-tredici anni li avrò ascoltati un milione di volte, certo ne avevo pochi ma ogni volta scoprivo un dettaglio, una nota o una sfumatura diversi.
Una sensazione bellissima che poi mi ha portato ad amare questa musica. Avere oggi ha disposizione tanta musica, in quantità così impressionante, non mi sembra un grosso passo in avanti dal punto di vista della fruizione. Cerco di adattarmi ma non è facile
Prima, per esempio, i gruppetti di musicisti nuovi e giovani per farsi conoscere provavano in cantina, registravano un nastro, ne facevano quaranta copie e lo facevano circolare tra i produttori e i vari organizzatori.
Era quello che era, era chiara la situazione. Adesso invece no. Ora anche un ragazzino riesce a registrare da solo qualcosa in una qualità decente.
Tutti fanno dischi, con il computer e la stampante creano grafica e copertine, poi li mandano in giro facendoli figurare come album veri e propri. E questo capita in un momento in cui, come ho detto prima, paradossalmente il CD è sulla via del tramonto.
Qui dove abito, a Chiavari, ho per fortuna a disposizione un negozietto di dischi veramente fornito. Ovviamente ho costretto il proprietario a occuparsi specialmente di jazz, dandogli anche dei consigli per titoli di cui rifornirsi.
Devo dire che con il tempo i suoi affari sono migliorati. Ora gli appassionati vengono da ogni parte, Alessandria, Asti, finanche da Bergamo e Milano, per acquistare e trovare i dischi che cercano. Diciamo che è un caso limite e raro. Anche a New York, trovare oggi un negozio di dischi è quasi impossibile, ne esistono solo pochissimi e si contano sulle dita di una mano. Ne trovi uno ottimo vicino a Ground Zero, ma è forse l’unico di una città grandissima come New York. Stessa situazione anche a San Francisco.
Beh molto diversi. Perché Ottolini, a parte il lavoro di arrangiatore, in questo gruppo stabile dell’Auditorium è uno dei fiati, quindi non è il mio interlocutore. Lo è invece Gianluca, nel quintetto o in altri contesti. Lì siamo due fiati, tromba e trombone, che comunicano tra di loro, moltissimo e quasi telepaticamente. Con Ottolini l’approccio è completamente diverso, lui fa parte della sezione fiati ma fornisce tanto in professionalità e competenza musicale in svariati campi. Gianluca è invece, secondo me, un genio, un grande improvvisatore. Anzi, lo ripeto sempre, forse è uno dei due o tre più grandi musicisti che ora abbiamo in Italia. Te lo dice uno che alla sua età, dopo tanti anni, ha visto esordire e crescere tantissima gente.
Hai sempre manifestato il tuo amore per Duke Ellington, Miles Davis e soprattutto per Louis Armstrong. Come mai non hai ancora mai pensato di dedicarti, magari anche tramite il Parco della Musica Jazz Lab, a rivisitare il repertorio e la figura di Satchmo?Beh, a Louis Armstrong abbiamo dedicato un disco io e Franco D’andrea pochi anni fa. Si intitolava “For Bix And Pops”. Era un progetto in duo con cui però abbiamo rivisitato innanzi tutto Bix Beiderbecke, che amo tanto quanto (se non forse più di) Armstrong.
Penso che non ci sia bisogno di far altro, perché comunque stiamo parlando di una musica lontana da quello che io faccio e suono in genere. Capisci, il fatto che io ami e apprezzi Armstrong non significa che desideri fare quel tipo di musica. Così come, non so, mi piace moltissimo Aretha Franklin ma non penserei mai di fare un disco su di lei.
Armstrong è stato un dio fino agli anni Settanta ma il suo momento super creativo l’ha avuto negli anni Venti e Trenta. Bix poi è morto alla fine degli anni Venti. Perciò stiamo parlando di una musica originaria di New Orleans che a reinterpretarla oggi uno può farla o in modo, per così dire, ironico e divertente, oppure ne può fare un revival di cui nessuno sente la necessità.
Ottolini ha deciso, tra l’altro, di fare recentemente un progetto chiamato “The Bix Factor”, ma lui è abituato a fare cose di questo tipo e a giocare con qualunque materiale. Io invece no, non sono portato a giocarci.
È qualcosa che amo enormemente per il modo in cui fu fatto dagli originali all’epoca ed è un ragionamento che per me vale anche per quanto riguarda Duke Ellington. Quelle di Bix, Armstrong ed Ellington sono cose e produzioni enormi che vanno amate e rispettate soprattutto con l’ascolto
Con Cherry ne abbiamo passate e viste delle belle. Con lui ho suonato davvero molto. Tra le prime cose ricordo di aver fatto parte di un suo gruppo a New York per musicare un film di Alejandro Jodorowsky, credo fosse “La montagna sacra”.
Ho conosciuto benissino Don, anche perché quando si sciolse il gruppo di Gato Barbieri, nel quale io suonavo, Gato poi finì a suonare con Don Cherry. In pratica ero lì a New York che suonavo contemporaneamente con Gato Barbieri, Steve Lacy e Don Cherry. Eravamo una specie di famiglia e si facevano tante cose insieme. Don Cherry è stato, a mio avviso, un gradissimo guru. Non è stato solo un musicista ma anche un vero e proprio ” maître à penser”. Completamente folle, però.
La prima volta che l’ascoltai avevo circa vent’anni e fu nel disco “Something Else!!!” di Ornette Coleman. Quel disco è stupendo. Lì Don Cherry, Walter Norris, Don Payne e Billy Higgins suonano su dei brani di Ornette che però si basano sui giri armonici di noti standard americani, tipo “Out Of Nowhere” e lì Don suona davvero da far paura, bellissimo e perfetto anche da un punto di vista formale. La sua voce era diversa da qualunque altra, dal punto di vista ritmico mi faceva venire in mente Clark Terry. Ricorreva a degli intervalli inusuali pur restando all’interno di un linguaggio molto ortodosso. Quando perciò lo ascoltai in quel disco rimasi talmente abbagliato da pensare che sarebbe diventato in breve tempo uno dei più grandi sulla scena, forse il futuro della tromba dopo Miles. Invece mi sbagliai, perché Cherry praticamente si dimostrò sempre assai riluttante a vestire esclusivamente i panni del trombettista di jazz. Erano troppe e diverse le cose che lo attraevano.
Lui era un nomade, partiva e scompariva all’improvviso per sei mesi, poi magari si scopriva che era in Thailandia oppure che era in viaggio nel deserto con i tuareg. Poi quindi tornava suonando il flauto, il gamelan o qualche strano tipo di strumento a percussione africano. Per cui la tromba, che purtroppo come strumento è una specie di prigione – e qui apro una parentesi raccontandoti anche del grande Butch Morris:come sai lui suonava la cornetta e aveva preso come modello proprio Don Cherry. Poi un bel giorno smise di suonarla e quando un paio di anni fa lo rividi e gli chiesi perché avesse smesso, lui mi confessò che non aveva più tempo e voglia di esercitarsi, perché sapeva che se voleva suonarla decentemente avrebbe dovuto dedicargli non meno di cinque ore al giorno. – dicevo, la tromba è una gabbia che ti devi portare anche in vacanza, e questa gabbia Cherry l’ha sempre rifiutata in tutta la sua vita. Ragion per cui capitava che andava a suonare e che in cinque minuti ti facesse ascoltare cose bellissime e sensazionali mentre cinque minuti dopo ti sembrasse un autentico principiante. Secondo me l’ultima che lo si può ascoltare ai massimi livelli è nei suoi quartetti e quintetti che incisero per la Blue Note.
Dopo di allora la tromba e la cornetta diventarono solo degli accessori da tirar fuori al momento opportuno, per suonare comunque cose normalissime, un po’ brutte come fece più tardi nel riformato quartetto di Ornette Coleman.
Parlo da un punto di vista formale e tecnico, perché per altri versi restava sempre un geniaccio capace di creare e suonare musica che valeva la pena ascoltare. Questo per ribadire il fatto che non diventò quello che invece mi aspettavo che diventasse, cioè uno dei più grandi trombettisti innovatori dopo Miles. Recentemente ho preso e ascoltato un disco dal vivo in Germania del quartetto di Ornette, risale alla fine degli anni Ottanta, c’è un pezzo in dialogo, con lui e Ornette entrambi alla tromba, e tu sai che Ornette suonava la tromba malissimo.
Ebbene in quel dialogo Ornette sembra migliore di Cherry. Fa due o tre note molto acute che Don non riesce a ripetere e sostenere. Mi chiedo pertanto come sia venuto in mente a qualcuno di pubblicare un documento del genere. Don Cherry ne ha provate di tutte, c’è anche il disco dove ha provato a fare il cantante di reggae, però se dovessimo mettere a confronto l’opera di Miles con quella di Cherry vedremmo che Miles ha una gran quantità di dischi sparsi nel corso della sua lunga carriera che sono tutti egualmente innovativi e splendidi, mentre lo stesso giudizio, purtroppo, non è possibile trasferirlo all’intera opera e discografia di Cherry.
Sicuramente per quello che riguarda la mia attività creativa tutti i periodi sono stati ugualmente interessanti. In questo momento, rispetto a quanto fatto in precedenza, sono concentratissimo sullo strumento per, se non migliorare, almeno per non peggiorare. Ovviamente invecchiando il corpo cambia, i muscoli non sono quelli di prima, quindi se uno non vuole precipitare deve lavorare molto e cercare di mantenere uno stato accettabile tendente al miglioramento. Ciò è interessantissimo perché diventa quasi una sfida. Per esempio, ho nella formazione Andrea Tofanelli, un trombettista favoloso che è anche uno dei più grandi acustici che si possano trovare in Italia, molto richiesto dappertutto nel mondo. Possiede un’estensione davvero unica e impressionante e al mondo di trombettisti che possano rivaleggiare con tale dote ne esistono solo una decina. Ebbene, lui mi ha dato dei libri su cui lavorare, che non conoscevo e che ho trovato invece utilissimi e interessantissimi. Questo tipo di letture, studi ed allenamenti sono attualmente per me molto stimolanti e mi sta facendo guadagnare almeno mezza ottava negli acuti, un traguardo che non pensavo mai di riuscire a raggiungere nella vita. In altri momenti ho avuto invece periodi molto stimolanti dal punto di vista creativo. Per esempio è stato molto stimolante e importante per me esser stato a suonare e a vivere a New York. Per via dei musicisti con cui suonavo e dai cui ricevevo moltissimo. Però un altro periodo stimolante, in cui scrivevo una quantità enorme di materiale e musica quasi ogni giorno, è stato quello degli Electric Five. Con quella formazione mi divertivo tantissimo, avevo suonato spesso con chitarristi e trovavo che insieme alla chitarra venissero fuori cose sempre diverse e interessanti.
Tempo fa mi dicesti che formasti quel gruppo per via del chitarrista, ossia perché ti piaceva molto Roberto Cecchetto …Sì, ma in verità gradivo e desideravo molto anche Gaspare Caliri. Cosi trovandomi indeciso fui salvato da mia moglie che saggiamente e con molto più senso pratico mi suggerì di prendere entrambi. Dunque feci questo gruppo con due chitarre elettriche, chitarre che erano in grado sia di creare atmosfere e colori avvolgenti sia di imitare benissimo la funzione dei fiati. Insieme tiravamo giù degli arrangiamenti incredibili, tipo come il lavoro che ci capitò di fare su “The Duke” di Gil Evans. Sì, quello degli Electric Five fu sicuramente uno dei momenti più belli della mia carriera, anche volendolo considerare dal duplice punto di vista creativo e tecnico. La stessa euforia è arrivata quando ho poi incontrato Gianluca Petrella. A quel punto chiunque poteva far parte della sezione ritmica ma Gianluca era diventato il suono centrale su cui creare temi, dialoghi e tessere improvvisazioni. Infatti, anche il ritorno all’ECM con “Easy Living” fu dovuto essenzialmente al bel materiale che avevo scritto per Gianluca. Altri bei momenti per le cose ottime che ho suonato sono quelli passati con Roswell Rudd. Ogni tanto ci penso e credo veramente che insieme a lui sia riuscito a fissare alcune delle più felici intuizioni e intense pagine musicali della mia carriera.
Dopo una così lunga e intensa carriera cos’altro può desiderare un musicista come Enrico Rava? Quali sono i sogni e le sfide che vorresti ancora realizzare e affrontare?
Guarda, non ho sogni nel cassetto. L’unico sogno e desiderio si trova invece fuori il cassetto. Sarebbe quello di poter ancora suonare per molti anni, il che vorrebbe dire vivere ancora per molti anni e star bene ancora per molti anni. Per il resto non ho altri sogni. Diciamo che le cose che desideravo fare e che desidero fare le sto facendo, stanno funzionando e ne sono contento. Non ho frustrazioni per cose che non sono riuscito a fare, anche se erano milioni le cose che avrei voluto fare. Non sono riuscito a farle perché forse non ho neanche “desiderato” farle. Il sogno della mia vita, sin da quando ero ragazzino, era quello di fare il musicista di jazz. Si è avverato e perciò credo d’esser già stato molto fortunato.
Intervista a cura di Olindo Fortino – Sound Contest
ENRICO RAVA & PMJL “LESTER! Omaggio a Lester Bowie”
GIANLUCA PETRELLA – GIOVANNI GUIDI duo “Soupstar”
domenica 22 settembre 2013, ore 20:30
Basiliche Paleocristiane di Cimitile (NA)