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Intervista a Gianluca Petrella, comunicazione e improvvisazione

Virtuoso trombonista, compositore e improvvisatore, Gianluca Petrella è una della rare “menti” musicali nazionali che all’estero ci invidiano.
Capace come pochi di stare con due piedi dentro più scarpe contemporaneamente, ha recentemente prodotto e pubblicato con la propria label Spacebone l’album “Il Bidone”, dedicato al repertorio di Nino Rota, ma è anche in giro a promuovere dal vivo il debutto discografico ufficiale di “SoupStar”, progetto in duo condiviso con il pianista Giovanni Guidi. A tutto ciò aggiungete la Brass Bang, i consueti impegni con il quintetto storico di Enrico Rava, il rispolvero della sua Cosmic Band, più altre imprevedibili apparizioni in progetti altrui e avrete l’idea di un musicista senza limiti e freni, preoccupato solo di alzare sempre più l’asta della creatività oltre cui saltare e di stabilire contatti con il maggior numero di espressioni sonore che circolano sul pianeta Terra.
In questa densa intervista “aperta”, in occasione della sua partecipazione al Pomigliano Jazz 2013, ha accettato di raccontarci le sue ultime creazioni e collaborazioni, abbracciando poi nella conversazione altre sue esperienze, passioni e considerazioni.

Gianluca, partirei direttamente dal tuo ultimo album “Il bidone”. Negli ultimi anni sono stati molti gli omaggi fatti a Nino Rota, in Italia e all’estero. Però dal punto di vista creativo il tuo è un disco che spiazza, dagli arrangiamenti sorprendenti e immaginifici. Cosa ti ha spinto a lavorare su Nino Rota? Quali peculiarità e aspetti della sua opera ti attraggono come compositore e autore?

I motivi sono vari. Tanti e diversi aspetti mi hanno indotto a omaggiare Nino Rota.
In primis, sopra qualsiasi altra cosa, metterei la mia conoscenza di Nino Rota, perché non è la prima volta che tratto musica scritta da lui in un contesto prettamente jazzistico. Addirittura mi ricordo che già dall’adolescenza, in gruppo di cui faceva parte anche Antonello Salis, ci si occupava di arrangiare e presentare in concerto qualche pezzo di Rota.
Un altro motivo importante riguarda il fatto che essendo cresciuto e avendo studiato presso il conservatorio di Bari, la figura di Rota è stata davvero importante. Lui, infatti, ne fu il direttore per diversi anni. Quindi era un personaggio molto stimato e popolare. Purtroppo io arrivai dopo che lui aveva già abbandonato la direzione. Nonostante ciò, all’interno dell’istituzione la sua figura e il suo insegnamento restavano imponenti e continuavano a mietere ammirazione.
Anche mio padre me ne parlava molto, insieme a molti altri miei insegnanti che nel conservatorio avevano avuto la fortuna di conoscerlo e di lavorargli accanto. Questi erano tanti spicchi di conoscenza che si andavano ad aggiungere sul personaggio.
Dopodiché ho ricevuto questa proposta, qualche anno fa, dall’associazione I-Jazz nella persona di Corrado Beldì, direttore artistico del festival di Novara, il quale mi aveva chiesto di assumere la direzione del gruppo che rappresenta questo consorzio di festival, organizzatori e promotori di eventi.
Infatti, ogni anno, questo pool affida a qualcuno la direzione di un progetto che lo rappresenti. Quindi facendo la somma di tutti questi termini, vale a dire la mia personale conoscenza della musica, del personaggio di cui tutti mi avevano parlato e di questa speciale proposta da parte di I-Jazz, ho accettato l’incarico.
Da lì sono partiti dei concerti culminati poi in questa registrazione. Infatti, credo che sarebbe stato un peccato non documentare il lavoro svolto per quel progetto dopo quel piacevole incarico.
Il gruppo che ne fu artefice è ancora attivo ed è adesso impegnato nella promozione del disco. Non rappresenta più l’associazione I-Jazz, poiché il mandato è scaduto, quindi mi sono sentito libero di portarlo avanti per conto mio e di effettuare questa registrazione di cui sono stato anche produttore.

Raccontiamo un po’ cosa contiene “Il Bidone”. Vorrei che tu chiarissi e descrivessi nel dettaglio quelle che sono le caratteristiche di alcuni brani. In primo luogo c’è un’accoppiata mozzafiato, “Ballerina Night” e “Il teatrino delle suore”. Sono pezzi in cui si rileva un’aurea sperimentale articolata già dal punto di vista strumentale, però vi sono anche delle cose importanti riguardo a certe spericolatezze vocali stile Mike Patton, unite ad atmosfere di matrice noir e hard boiled che soprattutto ne “Il teatrino delle suore” danno vita a una sorta di dodecafonia notturna. Questi sono alcuni aspetti che conducono, a mio avviso, ad un positivo stravolgimento dei temi originali. Tu cosa ne pensi?

Cover de "il Bidone", cd di Gianluca PetrellaBeh, diciamo che il lavoro d’arrangiamento è inserito in una dimensione soggettiva che varia in ognuno di noi.
Ovviamente io, in questi tipi di arrangiamento che hai ascoltato, ho messo molto del mio.
Sono gli arrangiamenti che meglio mi rappresentano. Sarebbe molto facile suonare i brani in modo piuttosto fedele agli originali, senza dargli una particolarità. Io, alla fine, ritengo d’essere uno che con queste cose si complica la vita. Questo mio complicarmi la vita dà spesso come risultato quello di spiazzare l’ascoltatore, il che rientra proprio tra i miei obiettivi preferiti.
Ora stiamo parlando di uno dei miei dischi più “leggeri” incisi negli ultimi tempi, poiché credo che quelli precedenti fossero molto più “duri” e “riflessivi”. In questo specifico caso il repertorio trattato mi ha giocoforza costretto a stare un po’ più tranquillo.
Nondimeno ho cercato di modellare i brani secondo una mia visione personale, cosicché gli arrangiamenti che ne sono scaturiti ben aderiscono alla tua descrizione. Sono un po’ cupi come ne “Il teatrino delle suore”, un brano che è un’improvvisazione sulla melodia portante riprodotta e mantenuta dai violini e dagli archi campionati da Andrea Sartori, colui il quale ha gestito in studio l’ambito elettronico.
Su queste sue basi noi abbiamo improvvisato in totale libertà, mantenendo tuttavia la concentrazione necessaria per ottenere alla fine un prodotto completo.
Questa è una formula che ho spesso usato e affinato nel tempo, ossia improvvisare su un tema principale, cercando di tenere in disparte il suo aspetto formale e virando invece verso altri tipi di situazione. “Il teatrino delle suore” mi sembrava perfetto per applicare questo mio pensiero compositivo che discende essenzialmente da una prassi improvvisativa.
Il cantante John de LeoPer quanto riguarda “Ballerina Night” concordo con quanto hai detto. Il lavoro fatto da John De Leo è semplicemente straordinario, d’altronde mi sembrava sprecato utilizzare una voce dotata come la sua, facendole cantare cose banali.
John tecnicamente è molto valido e da lui si possono tirar fuori cose interessanti, che vanno ben al di là di ciò che solitamente si richiede o ci si aspetta da un cantante jazz.
In Italia purtroppo abbiamo ancora pochi cantanti uomini che scelgono la carriera e la strada del jazz; al contrario la quota rosa è molto più alta ma con una percentuale molto bassa di originalità e qualità progettuale.
Da un cantante io invece pretendo una forte nota di colore e se ci fai caso in questo disco John è usato più come una sorta di terzo strumento a fiato, escludendo i testi per far esclusivamente leva sui suoi vocalizzi e le sue improvvisazioni. Questo rientra sempre nella mia concezione di volere la musica in un certo modo.

Una concezione che nel caso de “La dolce vita” sembra aver impostato a mo’ di suite i tre distinti motivi inclusi al suo interno …

Sì, esattamente. “La dolce vita” l’ho pensata in forma di suite. Soprattutto dal vivo, sia perché non vi sono fermate sia perché tra un brano e l’altro costruiamo dei ponti totalmente improvvisati che ci portano su altri motivi. Anche questo rientra nel mio specifico modo di arrangiare, comporre e suonare con i miei gruppi. Non piacciono le interruzioni, mi piace invece far fluire la musica dall’inizio alla fine, specie quando mi esibisco dal vivo. Le delucidazioni o i dettagli di ciò che ho suonato le fornisco, a chi me lo chiede, solo dopo il concerto.

Il perno principale de “Il Bidone”, la sua pietra angolare, sembra essere questo brano che si estende per sedici minuti e che s’intitola “la Poupee Automat”. Strutture e basi elettroniche con estensioni e diramazioni free form su un ostinato del piano che alla fine convergono verso un particolare e incredibile crescendo ritmico …

Sì, era il brano che più si prestava ad un’esecuzione dilatata e quindi, come ben dicevi, questo riff del piano che caratterizza il pezzo mi ha portato a costruire qualcosa di ipnotico modellato su un’idea di ripetitività, o meglio qualcosa che non si muove oltre un certo spazio ma che al suo interno ha questo crescendo dinamico, molto lungo e arioso, che parte da zero e che alla fine esplode negli ultimi minuti dopo un processo graduale.
Che poi il brano duri così tanto è una pura necessità, dovuta principalmente al mio desiderio di trovare la giusta intensità e profondità su frammenti di tema che entrano e che sono poi integrati (o disturbati) da altri frammenti di improvvisazione.

Come dulcis in fundo c’è infine la deviazione estetica di “Lla Rì Lli Rà”, dove sento molto forte la lezione e l’influenza di Bill Laswell

È un bellissimo brano tratto da “Le notti di Cabiria”. Un bel mood in tonalità minore, arrangiato in modo lento e un po’ “rumba oriented” con molte altre influenze di musica latina in chiave modernissima. C’è più un lavoro di atmosfera e di missaggio, con gli strumenti spostati in varie parti del pezzo, oppure portati in primo piano e poi rimessi indietro per rimetterne in evidenza altri. Anche qui spicca la voce impiegata in guisa di strumento e tutto parte sempre da un particolare processo di stravolgimento sull’arrangiamento.
Diciamo che sui brani di questo album ci ho lavorato veramente tanto, perché la mole di materiale da ascoltare che ho ricevuto e ho reperito è stata davvero enorme. Ti parlo di materiale per quattordici ore d’ascolto in cui ho scoperto tante cose, tante sfaccettature che non conoscevo assolutamente.
Pensavo di conoscere bene l’opera e il songbook di Nino Rota, invece mi son dovuto ricredere. Parecchi di noi conoscono solo una minima parte del lavoro di Rota, le composizioni felliniane o poco più.
Gianluce Petrella, Pomigliano Jazz 2009 (ph Pino Miraglia)C’è invece tutto un mondo sommerso fatto di opere liriche, composizioni per archi e orchestra, musiche completamente distaccate da quel Nino Rota gioviale o cupo e melanconico che noi conosciamo tramite le colonne sonore scritte per Fellini, Visconti o Francis Ford Coppola.
C’è anche molta avanguardia e musica contemporanea, studi su compositori orchestrali dei primi del Novecento.
Capisci, la quantità di materiale era davvero impressionante e tutta molto interessante. Ci sono stati alla fine alcune pagine e musiche che sono riuscito a captare dopo un faticoso lavoro di selezione e concentrazione per non far ricadere la scelta sulle solite cose già famose e conosciute. “Roma”, per esempio, è uno dei brani più belli, nella loro apparente semplicità, che abbia mai ascoltato negli ultimi anni. Un pezzo ricco di pathos, anche questo lontano dal Rota di comune dominio pubblico.

Nell’avvenire, ti piacerebbe esaminare ed esplorare l’opera di qualche altro autore o musicista?

Ovviamente non lo escludo, però posso dirti che non sono un grande amante dei tributi. Se scelgo di fare un omaggio, la scelta deve riguardare un personaggio molto particolare, tipo Sun Ra, di cui mi occupo e a cui mi rifaccio in qualche modo con la Cosmic Band. Lo stesso Sun Ra è un personaggio poco inflazionato e setacciato, nulla in confronto a tutti i tributi fatti nei confronti di Miles, Coltrane, Ornette e via dicendo.
Anche commercialmente, non sabbero poi molti i concerti o gli ingaggi per un gruppo che suona e omaggia Sun Ra rispetto a quelli, molto più richiesti e numerosi, che potresti farne e ottenerne andando in giro a risuonare Miles, Monk o Coltrane.
Dovessi riprovarci sceglierei di occuparmi, senza dubbio, di un personaggio sempre un po’ misconosciuto o minore, che pur privo di una buona resa commerciale non mi impegni per lungo tempo con i concerti e mi appaghi personalmente.

Pensi che un gruppo e un progetto come questo su Nino Rota possano avere delle richieste e delle possibilità per girare anche all’estero?

Sì, tranquillamente potrebbero girare anche all’estero, ma la cosa importante non è tanto il fatto di proporre Nino Rota quanto il personaggio che lo va a proporre.
Spesso bazzico l’estero, sia con progetti di altri, la maggior parte ovviamente di Enrico Rava, sia con i mie gruppi, con cui mi capita di partire almeno un paio di volte all’anno. È successo per esempio con il mio quartetto l’anno scorso.
“Il Bidone” è un progetto che si potrebbe muovere anche in Europa però, appunto, è un lavoro duro far girare gruppi all’estero. Hai bisogno di qualcuno che ti dia una mano nel paese in cui vai a suonare a livello organizzativo e burocratico. Bisogna spesso aggrapparsi anche ad un subagente della zona.
È tutta una faccenda e una trafila complicata, ragion per cui gli italiani che girano di più all’estero sono ancora i più noti e famosi, come Rava, Bollani, Fresu e Pieranunzi. Spesso però si trovano anche per i meno noti delle porte aperte in modo diretto o indiretto.
Per quanto mi riguarda ho potuto fare tour all’estero suonando con altri musicisti quali possono essere Bobby Previte o Bojan Zulfikarpasic. Dipende dai tipi di contratti ma anche dal valore dell’artista.

Parliamo adesso del recentissimo lancio discografico di “SoupStar”, progetto in duo che vede il tuo trombone in compagnia del piano di Giovanni Guidi. L’indole improvvisativa trova quasi assoluta precedenza in questo tipo di repertorio?

Gianluca Petrella - Giovanni Guidi, Soupstar, Pomigliano Jazz 2013 (ph Gianfranco Adduci)Sì, è soprattutto quella, tutto si basa principalmente sull’improvvisazione, su un particolare modo di pensare la musica.
Noi ci muoviamo su questo tipo di fronte, dove è più appagante la creatività rispetto all’esecuzione. Ciò richiede anche molta più concentrazione, perché ci deve essere un filo conduttore tra te e il tuo partner.
In duo si riesce ad attuare meglio questo tipo di prassi, una prassi che si basa su un nostro excursus, ossia un intreccio di brani nostri originali, brani popolari di altri autori e tanta improvvisazione che funge da collante. Anche lì ponti tra i vari brani, improvvisazioni tirate fuori al momento.
Adesso io non vorrei catalogare i vari musicisti o le varie idee, però la nostra è certamente collocata in un ambito più improvvisato. C’è anche da dire che il concetto di improvvisazione viene spesso confuso o frainteso.
Improvvisare significa, a mio avviso, anche tirar fuori cose che comunicano con chi ti ascolta, lanciare un messaggio. Molto spesso questo messaggio che noi inviamo viene catturato dal pubblico.
Chi improvvisa deve riuscire a far cadere quel velo di scetticismo che serpeggia oggi tra il pubblico, abituato ad ascoltare o a vedere da decenni le stesse cose cosiddette “non convenzionali”.
Queste sono modalità che restano ma se a tutto ciò si applica anche il tentativo di una genuina comunicazione, la performance dal vivo fluisce e funziona alla grande.
Da questo punto di vista credo che stiamo raccogliendo molti bei risultati, nonostante in partenza la cosa possa essere avvertita come dura e complicata, visto anche il format non tanto consueto di piano e trombone. Noi però cerchiamo di diversificare la proposta inserendo qualche brano famoso, qualche standard oppure delle ospitate che includono qualche altro musicista, come per esempio quelle avvenute per il disco, a cui hanno partecipato musicisti di estrazioni diverse, come David Brutti, un grande sassofonista di ambito più contemporaneo, un quotatissimo nome della scena elettronica internazionale come Max Loderbauer e un noto dj come Ricardo Villalobos.
A Perugia invece ci siamo cimentati a improvvisare in una grande piazza su delle basi dance. Questo è lo spirito di “SoupStar”, cioè due persone che improvvisano amando guardarsi intorno a trecentosessanta gradi, sia per quanto riguarda gli ambiti musicali sia per quanto riguarda il tipo di ospiti e di musicisti con cui confrontarsi e interagire.
Non escludo perciò che presto possa figurare ospite anche qualche personaggio speciale, molto distante dal nostro circuito. Anzi, ben vengano situazioni del genere, in modo che la cosa possa crescere nel modo in cui la intendiamo, in maniera più completa e al tempo stesso sempre più attuale e avventurosa.

Quali esempi, ascolti e modelli ti hanno aiutato a crescere dal punto di vista tecnico e quali invece sono stati preziosi sul piano del processo compositivo?

Ginluca Petrella con Enirco Rava e Giovanni Guidi al Pomigliano Jazz 2009 (ph Pino MIraglia)Un vero maestro di vita, soprattutto per quel che riguarda il duplice punto di vista umano e professionale, è stato e resta Enrico Rava. Ho iniziato a suonare con lui dal 1996 e ho assistito a vari avvicendamenti all’interno del suo quintetto. Io fortunatamente sono rimasto in formazione sin da allora.Con lui ho fatto tante esperienze e appreso moltissimo.
Per quanto concerne la musica i modelli di partenza sono stati quelli classici, posso citarti Miles Davis o J.J. Johnson. Poi ho sentito l’esigenza di staccarmi da queste cose e di votarmi altri maestri e ad altri tipi di suoni. Per esempio ho molto amato l’hip hop degli anni Novanta, oppure un personaggio come Bill Laswell (di cui posseggo a casa quasi tutto) e tutti gli altri musicisti che gli sono stati intorno.Parliamo dunque di quella New York underground venuta alla ribalta specialme nte a partire dagli anni Ottanta e tutt’ora ancora molto attiva, fresca e interessante.
Poi ho ascoltato e approfondito i primi maestri e compositori di primo Novecento, sia del ramo classico sia del ramo contemporaneo. Mi gira intorno un po’ tutto. Escludo invece e assolutamente la musica pop, soprattutto quella di casa nostra, priva di carattere e senza alcuna voglia di rinnovarsi.
Di influenze e passioni te ne potrei dire un’infinità e delle più varie, da Pharoah Sanders a Eric Dolphy, da Notorious B.I.G. ad Albert Ayler passando per Flying Lotus. I nomi da farti sarebbero davvero tanti e sicuramente me ne sfuggirebbero alcuni.

Per quanto riguarda invece il trombone vorrei farti i nomi di tre specialisti d’ambito europeo: Radu Malfatti, Conny Bauer e Albert Mangelsdorff. Tu cosa mi dici?

Ah certo, li conosco e li ho ascoltati tutti. Qualche settimana fa ho ricevuto un Cd dei Brotherhood Of Breath di Chris McGregor, favolosa formazione anni Settanta composta da musicisti inglesi e sudafricani.
Radu Malfatti ci suonava spesso insieme e figurava anche in molte loro registrazioni, e proprio in quest’ultimo disco che ti dicevo, che è in realtà una ristampa freschissima della Ogun di cui però non ricordo ora il titolo [trattasi di “Procession – Live At Toulouse” pubblicato originariamente nel 1978. Ndr.] c’è Radu Malfatti che mi lascia a dir poco esterrefatto per la grande tecnica e l’incredibile energia che mette in quel concerto.
Esegue un paio di assolo bellissimi, ipermoderni, ipertecnici e molto liberi. Dei tre che hai citato Radu Malfatti è quello che al momento sto ascoltando di più.
Gianluca Petrella (ph Roberto Cifarelli)Per fortuna qui a Torino ho un ottimo foraggiatore di questi tipi di materiale che è Riccardo Bergerone. Appena c’è qualche novità del genere la riceve a casa, e spesso se la fa spedire in doppia copia, cosicché capita che mi passi questi Cd fantastici per farmeli conoscere o ascoltare. Quest’ultimo Brotherhood Of Breath con Malfatti l’ho già sentito numerose volte in macchina perché mi ha fatto davvero impazzire. Dopodiché hai detto Conny Bauer.
Mah, io al posto di Conny Bauer piazzerei prima Paul Rutherford, che rispetto a Bauer aveva qualcosa in più. Stiamo parlando comunque di trombonisti sono lì con l’età, in quel periodo in cui si sperimentava molto, e c’è proprio quell’altro disco fantastico che è il live a Berlino, [trattasi per l’esattezza di “Solo In Berlin 1975″, pubblicato da Emanem nel 2008. Ndr.], in cui si produce in una performance per trombone solo che secondo me rappresenta una pietra miliare per i trombonisti moderni e che chiunque voglia suonare oggi il trombone in maniera creativa e moderna dovrebbe ascoltare per trarne suggerimenti. È un’ora di “solo” fantastica, in cui il trombone viene usato in modo anticonvenzionale, in seimila forme diverse, fuori della consueta tradizione che tutti conoscono.
E poi c’è Mangelsdorff, che è un po’ la storia del trombone in Europa, uno che ha attraversato vari periodi e varie fasi. Rispetto agli altri due, Mangelsdorff era certamente il più flessibile. Negli ultimi anni Cinquanta e nei primi Sessanta Mangelsdorff è stato, infatti, un trombonista di jazz puro, molto impostato sullo swing e sul ritmo di chiara estrazione e tradizione afroamericana. Poi ha cambiato strada, si è provato su altri generi e su altre tecniche ma sembrava non esserne propriamente contento.

E riguardo a uno americano come Roswell Rudd?

Beh, Rudd è un importantissimo punto di riferimento, almeno per me, uno che forse non riuscirò mai raggiungere in bravura. Purtroppo è anche un punto di riferimento per pochi di noi. La maggior parte dei trombonisti preferisce, infatti, ispirarsi a modelli ed interpreti più tradizionali e ortodossi, impostati sulla tecnica, sulla velocità o sulla nota acuta. La qualità più alta di Rudd resta sempre la straordinaria intensità di poche note essenziali che sanno parlare e comunicare meglio di cento note messe insieme.

E nel panorama italiano, a parte i nomi più quotati e popolari, quali sono, a tuo avviso, i trombonisti emergenti e i giovani più interessanti?

Ce ne sono diversi che conosco, apprezzo e stimo. Per esempio, Tony Cattano, un siciliano che viene da Livorno, un interprete di grandi capacità e dal suo molto contemporaneo. Anche lui ha un fortissimo spirito e intuito sia per l’arrangiamento. A livello di scrittura sa muoversi molto bene su versanti eterogenei e differenti, non solo jazzistici.
Delle tue parti conosco anche Alessandro Tedesco, con cui sono stato recentemente insieme a Siena, un trombonista dalle qualità e dai gusti musicali molto più in linea con le ultime tendenze.
Poi c’è Massimo Morganti, marchigiano di Ancona, un altro trombonista che io spesso cito. In Italia ne abbiamo di ottimi elementi e sarebbe bello se venissero fuori un po’ tutti, perché il trombone è ancora uno strumento posto in secondo piano.
Quando alla gente e alle grandi masse parli di trombone spesso queste intendono tutt’altro. Poi quando si parla di jazz si pensa sempre al sassofonista solitario sul ponte di Brooklyn, al trombettista bello e dannato, al batterista folle e imprevedibile. Non si pensa mai al trombone o ad un musicista di trombone. Il trombone ha sempre svolto nella tradizione jazz un ruolo più da collante o da effetto speciale, soprattutto nelle orchestre.

Parliamo un attimo della cruciale situazione in cui versano i festival italiani e del modo in cui i direttori artistici decidono di allestirne i rispettivi programmi. Tu stesso, quest’anno, hai preso in eredità da Roberto Ottaviano la direzione artistica del Bari in Jazz festival. Come ti è sembrata questa prima esperienza e qual è stata la soluzione che hai scelto per buttarne giù il cartellone, anche in riferimento allo strascico delle numerose polemiche sui finanziamenti?

Bari In Jazz 2013 - direttore artistico Gianluca PetrellaSì, dopo otto anni c’è stato questo avvicendamento con Roberto che stimo tantissimo, ma la polemica sui pochi soldi a disposizione affligge un po’ tutti i festival. Ovunque si effettuano tagli su tagli e ti anticipo che già per l’anno prossimo ci saranno ulteriori tagli anche a Bari.
Vivendo questa situazione direttamente sul campo e stando dalla doppia parte della barricata ho notato che la questione e il problema dei finanziamenti riguardano, bene o male, tutte le manifestazioni. Tutti sono scontenti per quello che ricevono e, ovviamente, poi alla fine le rassegne si riducono. Se ci si addentra la situazione è piuttosto complessa.
Innanzi tutto io partirei da una sorta di ignoranza da parte degli organizzatori. Attenzione, non dico di tutti, ma della maggior parte degli organizzatori e dei direttori artistici. Molto spesso costoro sono delle persone che non vivono o sentono la musica come me o come potrebbero viverla altri organizzatori che sono abituati a guardarsi intorno e che hanno un certo tipo di giudizio e di intelligenza nello scegliere gli artisti da includere nel proprio cartellone. Molto spesso sono dei personaggi che fanno da tramite con le istituzioni e che hanno, allo stesso tempo, anche la pretesa di programmare un’edizione stabilendo i nomi degli artisti.
Secondo me questo sistema è un po’ strano e sarebbe da aggiustare. Una delle soluzioni che io stesso sto sperimentando, in quanto direttore artistico di una manifestazione importante come quella di Bari, è quella di mantenere dei ruoli e dei compiti ben definiti. Tanto per fare un esempio: c’è il direttore artistico che si occupa del programma e poi c’è l’associazione che si occupa di raccogliere i fondi affinché questo programma si realizzi.
Se guardi il cartellone di Bari In Jazz che si è svolto quest’anno, noterai una forte presenza di musicisti giovani, validissimi, come per esempio lo è stato Dimitri Grechi Espinoza, che molti ancora non conoscono o non sanno cosa propone. Tanti non sanno che dietro Espinoza c’è un gruppo di otto musicisti giovani supervalidi che possono valere molto più di un gruppo o di un nome americani per i quali si paga almeno quattro volte il cachet di Espinoza.
Ho cercato di dare quindi ampio spazio ai musicisti giovani e a quelli nuovi e validi ma ancora poco conosciuti, allo stesso tempo ho infilato dentro un gruppo più noto che potesse fare da traino e richiamo sul pubblico, come Martin, Medeski & Wood, gruppo storico, richiesto da tutte le parti del mondo e sulla scena ormai da vent’anni.
Spesso invece succede che gli organizzatori e i direttori artistici sfoglino le riviste specializzate, oppure che consultino i siti dei festival più grossi e famosi del giro per informarsi su chi vada, in quel momento, più per la maggiore. Scelgono pertanto al buio, senza sapere neanche di cosa si tratta. Questo processo e questa prassi hanno da molti anni finito per propinare festival di “no-jazz” e di “no-music”, zeppi dei soliti dieci-venti nomi superfamosi che monopolizzano il circuito e che caratterizzano programmi equivoci.
Insomma, c’è bisogno di organizzatori e di persone competenti sulla musica, che ascoltino cose giuste, anche di critici come te o come altri che potrebbero dare una mano nell’effettuare opzioni e scelte di qualità e forte novità.
A margine di ciò, da noi in Italia si rileva la sempre più preoccupante assenza di spazi per i musicisti, che una volta terminata la stagione dei festival non trovano modo di avere una continuità per suonare dal vivo e quindi di proporsi e farsi conoscere a organizzatori e direttori artistici, sempre che questi ultimi abbiamo la sana abitudine di andare a vedere concerti che non siano solo quelli del loro proprio festival.
Chi sono i detentori di questi spazi? Come e a chi li destinano? È una situazione veramente sconfortante se la si raffronta invece al modo in cui certi spazi sono gestiti dalle istituzioni in paesi come Francia, Germania, Belgio e Olanda.
Personalmente, negli ultimi anni, ho anche riscontrato la presenza di troppi personaggi rampanti e privi di scrupoli che infestano la scena e il circuito del jazz italiano, un circuito in cui sono subentrati dei meccanismi che purtroppo hanno molto più a che fare con l’ambiente del pop.
Io non sono un musicista di cinquant’anni, calco i palchi solo da vent’anni e più, però nell’arco degli ultimi quindici anni ho potuto benissimo notare molte differenze. Come musicista non c’è più la rilassatezza e la spensieratezza di una volta, tutto si è fatto molto più complicato.
Io fortunatamente riesco a restare a galla inventandomi delle cose nuove, cerco di rinnovarmi il più possibile per quanto riguarda lo stile e anche per quanto concerne lo studio sullo strumento, ragiono e rifletto molto sulla musica, trovando conforto in chi come me tende a organizzare dei discorsi di freschezza musicale.

In questo momento mi stai parlando da una sala di registrazione. C’è forse qualcos’altro che bolle in pentola da parte tua?

Sì, c’è un lavoro bello lungo che sto affinando su dei video sperimentali dell’inizio del secolo scorso. Sono dei video che mi sta passando la cineteca di Bologna e che io sto musicando per un progetto in solitudine denominato Exp & Tricks. Perciò è un discorso più elettronico, basato principalmente su tastiere, effetti e campionamenti, un lavoro che piano piano sto effettuando completamente da solo nel mio studio e che si riallaccia ad una serie brani già presentati dal vivo, in qualche occasione, nell’ultimo paio d’anni. Capisci, sono lavori particolari e complessi, che portano via del tempo, con la speranza che un giorno mi facciano raccogliere un po’ di frutti.

Intervista a cura di Olindo Fortino – Sound Contest

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