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Intervista a Franco D’Andrea, tradizioni, rituali, astrazioni e clusters

Franco D’Andrea: arrivare al futuro ripensando il passato attraverso piani diversi.

“Today”, l’ultimo album in studio pubblicato, ti vede impegnato in un repertorio per piano solo che sembra indicare ulteriori sviluppi di ricerca, un nuovo contesto evidenziato già da dettagli sintomatici come la scelta di alcuni titoli. Infatti, se grazie al disco precedente avevamo preso confidenza con “Traditions” e “Clusters” qui, al contrario, troviamo anche “Rituals” e “Abstractions”. Quali sono esattamente le differenze espressive, timbriche ed estetiche che intercorrono tra questi due ultimi termini prescelti?

Con “Rituals” intendo riferirmi a brani che hanno in qualche maniera delle parentele con aspetti ipnotici o comunque con alcune specie di ritorni continui, “ostinati” dal sapore vagamente africano, come pure semplicemente inerenti a movimenti “di basso” particolarmente importanti.
“Traditions” restano le composizioni dal significato jazzistico più chiaro ed evidente mentre le “Abstractions” hanno logicamente a che vedere con improvvisazioni realmente istantanee, che guardano verso il futuro e verso l’ignoto, strumenti che, per intenderci, potrebbero esser utili a scoprire cosa si nasconde dietro l’angolo.

Nel nuovo album trova posto anche un “Cluster No. 4″

Cover di "Traditions and Clusters", cd di Franco D'AndreaSì, quella dei “Clusters” è una mia serie caratterizzata da una classica configurazione di masse sonore “a gruppo” o “a grappolo”, una tecnica che, come ben sai, è stata inventata nel secolo scorso e che poi lentamente dal piano della musica contemporanea è trasmigrata nell’ambito del jazz per essere adottata da alcuni pianisti in particolare, Thelonious Monk e Cecil Taylor, sebbene ancor prima di essi l’abbia incidentalmente adoperata, in alcuni suoi brani, anche Jelly Roll Morton sin dai primi anni Venti del secolo scorso.
Questa mia serie ha, per l’appunto, il suo baricentro nel ricorso a questi gruppi di accordi estremamente affollati, che generalmente vengono operati sulla tastiera con la mano aperta, con il pugno o con il gomito.
I “Clusters” possiedono un timbrica speciale e un significato molto percussivo, sono effetti e suoni spesso tendenti anche al rumore, pertanto nel mio discorso e nel mio modo di vedere sono utilizzati per evitare che il pianoforte sia pervasivo nella sua intrinseca origine settecentesca e ottocentesca. Così, sia nel piano solo sia in altri contesti, i “Clusters” mi servono per indurre l’idea o la sensazione che in quel momento stia suonando anche un altro tipo di strumento, estraneo a quella che è la più classica tradizione o concezione del pianoforte.

Proprio in relazione ai “Clusters” la tua è una veste che non trova molti riscontri nel panorama europeo. Difatti sembra una tecnica molto più in voga tra gli artisti e i pianisti statunitensi …
Sì, ma mi sembra anche una cosa abbastanza logica. Infatti in Europa il pianoforte è oggetto di una venerazione che personalmente trovo molto fuori luogo, nel senso che ci sono tanti altri bellissimi strumenti degni della stessa importanza e considerazione.
Nella musica classica il pianoforte è visto come uno strumento principe, un po’ come il violino. Ma nel jazz il pianoforte è solo uno strumento in mezzo agli altri, dotato, semmai, di determinate caratteristiche ma secondo me anche frenato e penalizzato da alcuni limiti espressivi.
Franco D'andrea al pianoforte (ph Roberto Cifarelli)Il pianoforte è infatti uno strumento molto “mediato”, che ha dei problemi enormi rispetto all’espressività di una tromba piuttosto che di un sassofono o qualsiasi altro strumento a fiato che si possa citare, compresa la voce stessa.
Ci sono invece cose che con un pianoforte non si possono fare. Ripeto, il contatto con lo strumento è molto “mediato”, nel senso che attraverso una meccanica molto complicata il pianista tocca la corda da una posizione distante, mentre un chitarrista quando tocca una corda è in grado di farlo direttamente, anche da un punto di vista strettamente “fisico”.
Io sono nato musicalmente come strumentista a fiato. Agli inizi ero soprattutto un trombettista e un clarinettista e dunque mi è rimasto questo “imprinting” che mi fa notare i grandi problemi espressivi del pianoforte.
Però ne vedo anche i vantaggi, per esempio a livello di registro, che è molto ampio sulle ottave rispetto agli altri strumenti.
Però il pianoforte non può vibrare e segni di espressione come il “glissando” non si possono fare.
Suonare poi il blues sul pianoforte è una delle cose più difficili del mondo e vi riescono con successo solo gli specialisti del blues usando dei trucchi, per esempio delle acciaccature e cose di questo genere. Tuttavia per il blues il pianoforte mi sembra assai limitato, molto meglio suonarlo con un’armonica a bocca.
Nel mio approccio cerco così di evitare che i limiti del pianoforte, le sue debolezze espressive, vengano troppo alla luce, e trovo che la migliore soluzione sia quella di utilizzarlo in senso orchestrale, assecondandone così la vocazione per cui è nato e sfruttando la possibilità di avere a disposizione tante ottave e sonorità che partono, ad esempio, dal registro dell’ottavino e giungono fino a quello del basso tuba.
In base a questo tuo ultimo inciso si comprende allora ancor meglio la scelta di riprendere e reinterpretare in “Today” brani di autori quali Charlie Shavers, Edward “Kid” Ory, John Coltrane e Charlie Parker, tutti grandi specialisti di strumenti a fiato quali tromba, trombone e sassofono…

Cover di "Dialogues with Super-Ego / Es", cd di Franco D'AndreaCerto, in effetti ho un debole per qualsiasi strumento che non sia il pianoforte.
Non so come spiegarlo. Al pianoforte mi ci sono ritrovato per caso. Ad un certo punto, quand’ero ragazzino, per problemi armonici ho dovuto metter mano a pianoforte rimanendoci poi incollato mio malgrado.
In seguito mi sono finalmente innamorato del pianoforte dopo che erano trascorsi già vent’anni da quell’epoca, intorno ai miei quarant’anni, quando ho incominciato a incidere i miei dischi per piano solo, “Nuvolao”, “Dialogues With Super-Ego/ES” e così via. Dedicandomi in quel periodo al piano solo ho finalmente scoperto cos’era il pianoforte.

Al Pomigliano Jazz Festival di quest’anno ti esibirai con il D’Andrea Three, avendo al tuo fianco Mauro Ottolini e Daniele D’Agaro. Eseguirete esclusivamente i repertori relativi ai “Traditions” e ai “Clusters” o ci sarà spazio anche per qualcos’altro?

Assolutamente sì, perché adesso, in pratica, ho fondamentalmente tre gruppi, il trio, il quartetto e il sestetto, ossia la fusione di trio e quartetto in cui si accentua la front-line dei fiati.
Per cui cosa succede? Succede che in tal modo viene alla luce il mio amore per gli strumenti a fiato.
Quando mi trovo al piano solo è un altro discorso, m’immagino di essere un’orchestra e di avere tante possibilità per scoprire o sperimentare cose che poi cerco di trasferire nei miei gruppi. Mi è molto difficile immaginare me stesso alla guida di un gruppo dove non ci sia almeno uno strumento a fiato.
Mauro Ottolini al trombone (ph Andrea Discacciati)Le ragioni sono sempre quelle che ti ho riferito prima, cioè l’essere nato, anche se in modo dilettantistico, come strumentista a fiato e il fatto di utilizzare comunque uno strumento a fiato per fare quelle cose che con il piano mi sono negate.
Il trombone lo amo proprio per la sua potenza espressiva sui glissandi e Ottolini, in particolare, è molto bravo e capace con questa specie di effettistica.
Per quanto riguarda il clarinetto, meravigliosamente impiegato e suonato da D’Agaro, mi ricorda atmosfere sentimentali e sonorità tradizionali a cui da giovane sono stato molto legato.
Di Andrea Ayassot, e quindi mi riferisco alle possibilità del sassofono, mi piace il suo modo di muovere le note secondo gli studi approfonditi che ha effettuato sulla musica indiana, uno stile a cui spesso aggiunge particolari effetti di microalterazioni e una gran varietà di altri microsuoni.
Nel caso specifico del trio che suonerà a Ottaviano la musica parte dal jazz tradizionale.
Cosa curiosa di un mio modo di vedere, poiché ritengo di avere due distinte anime. Un’anima che va verso il jazz tradizionale, la Swing Era ma anche verso il primo Ellington, e pertanto il repertorio del trio affonda le sue radici in questo tipo di terreno. Tuttavia lo suona immaginando come lo potrebbe interpretare ed eseguire oggi un musicista di jazz contemporaneo e qui entra in gioco la mia seconda anima, il mio amore per la novità, anche sul piano della tecnica, e l’esplorazione.
Però si parte da quel colore, dal jazz tradizionale. Questo per due ragione specifiche. La prima è che, a mio avviso, quelle formazioni con il trombone, il clarinetto e anche la tromba, tipiche dello stile dixieland, sono adesso passate in disuso.
Erano tuttavia band e formazioni molto belle e interessanti, anche perché i pionieri della nostra musica avevano studiato ed espresso tramite esse una splendida interazione tra i vari strumenti, di marca prettamente jazzistica.
Daniele D'Agaro al clarinettoLa seconda è che partendo da quel tipo di suono e di tradizione ritengo di poter andare meglio incontro al futuro, anche perché l’attualità e il futuro potrebbero benissimo ripiegare su quel tipo di sonorità.
Anche il free jazz, musica rivoluzionaria e di rottura, ha in realtà solo ripreso e portato alle estreme conseguenze idee e strategie operative già in voga nel jazz tradizionale degli albori, penso ad esempio alla polifonia improvvisativa organizzata in modo collettivo.
Per cui il jazz degli anni Settanta non era in realtà una forma di odio e rigetto totale della tradizione, e ciò lo si capisce anche dal fatto che accanto al piacere di suonare da solisti accompagnati da una sezione ritmica c’era spesso anche il desiderio di suonare e dialogare con altri strumenti in varie maniere, con l’unica evidente differenza che da maniere giocose si era passati a maniere, per così dire, molto arrabbiate. In altre parole io cerco di andare alle origini di quest’idea della polifonia improvvisata o del contrappunto improvvisato e chiaramente lo riporto al presente per vedere dove si può andare a finire
Questo pensiero e tutto il tuo discorso sembrano andare in netta controtendenza rispetto alla maggior parte delle proposte che siamo abituati ad ascoltare oggi. Mi riferisco anche alle soluzioni e ai colori proposti dalla scena scandinava o nordeuropea in generale. Tu cosa ne pensi e da quale parti ti poni.

Beh, io sono totalmente dalla parte opposta. Rispetto quel genere di artisti e di suoni però li sento lontani, molto lontani. E cosa pensasti invece della svolta elettrica di Miles Davis?
Tutto il bene possibile. Ne fui totalmente affascinato.
Cover di "Bitches Brew" di Miles DavisFu una delle ragioni per cui poi sono nati i Perigeo e decisi di aderire a quel bel progetto di Giovanni Tommaso.
Ero un folle appassionato di quel tipo di cose e ascoltavo all’infinito “Bitches Brew” e “Live Evil”.
Infatti un’altra mia fissazione è anche quella relativa alla distorsione del suono e agli effetti, per così dire, adoperati specialmente nel jazz, tipo quelli che nello “jungle style” inventava Ellington.
Amo poi molto il suono elettrico ed elettronico.
Non mi interessa molto il mezzo con cui questi suoni vengono ottenuti, mi piace invece l’idea del suono che diventa diverso da se stesso, che si sviluppa in una certa maniera, che racconta una storia con una sua timbrica o atmosfera particolare, che si espande in altezza e larghezza restando però alla fine riconoscibile nella sua essenza di partenza.
I “Clusters” li considero pertanto parte di questo tipo di effetti. Tutto sommato il mio stile sul pianoforte è molto pulito, tuttavia ho tentato di bilanciare questo nitore adoperando un certo tocco, certi “voicings” creati attraverso inconsuete e speciali disposizioni di accordi e certi tipi di clusters, poiché i clusters danno luogo a una vasta gamma timbrica in cui si differenziano molto nella loro specifica dissonanza.
In pratica il metodo è quello di avvicinare molto le note tra loro secondo varie possibilità. Puoi mettere una seconda minore accanto a una seconda maggiore, una seconda minore accanto ad un’altra seconda minore, oppure due o tre seconde maggiori tutte di seguito e così via.
Con la fantasia puoi davvero combinarne di tutti i colori.
C’è già all’orizzonte qualche nuova incisione con il quartetto?

No, ho invece registrato con il sestetto un nuovo album che dovrebbe uscire il prossimo gennaio.
Ritratto del pianista Thelonious MonkQuesta volta uscirà con il marchio di Parco della Musica, visto che mi hanno espressamente chiesto di produrre un disco e anche per il fatto che le persone che vi lavorano dentro le ho trovate oneste e molto esperte riguardo a ciò che suono.
Il repertorio di questo nuovo disco darà dedicato a Thelonious Monk, Monk visto come un luogo in cui è condensata un po’ tutta la storia del jazz.
Monk era dentro le radici e le origini del jazz, conosceva bene il blues e non lo disdegnava affatto.
Allo stesso tempo era talmente avanti e lontano da queste origini che ancora oggi fa effetto ascoltare alcuni suoi pezzi e trovare al loro interno l’espressione di una sensibilità e di un metodo assolutamente contemporanei.
Monk fu un musicista molto speciale perché visse all’epoca del “bop” ma non mostrò d’essere un bopper tout court, al contrario era molto proiettato verso il futuro.
Tra l’altro il nuovo album s’intitolerà “Monk And The Time Machine” proprio perché Monk fu un personaggio che musicalmente intraprese un viaggio nel tempo e nei vari periodi del jazz.
Un po’ come penso d’esserlo io, che nel corso della mia carriera ne ho combinate e suonate di tutti i colori. Sarà anche questo un disco doppio come lo è stato “Traditions And Clusters” con la differenza che stavolta ho deciso di farlo nascere e portarlo alla luce in studio.

Che fine ha fatto il trio con Fabrizio Bosso e Gianluca Petrella?

Franco D'Andrea, ospite di Pomigliano Jazz 2013È stato un bel momento che purtroppo non è proseguito per via degli tanti impegni e interessi che ormai occupano Bosso e Petrella.
Il trio con Ottolini e D’Agaro è però la sovrapposizione e la continuazione di quell’esperienza e di quel tipo di discorso.
Diversi anni fa fu molto curioso ascoltarti in “Round Riff & More” insieme a due contrabbassi, quelli rispettivamente di Ares Tavolazzi e Massimo Moriconi.
Come ti dicevo, nella mia carriera mi sono capitate tante cose e quella fu un’altra strana avventura nata essenzialmente dalla testa di Paolo Piangiarelli nel lunghissimo periodo in cui ho inciso per la sua Philology.
Paolo andava matto per Tavolazzi e Moriconi così mi chiese se si poteva fare qualcosa tutti insieme. Il disco poi è andato come è andato.
All’inizio io mi ero immaginato questo progetto e quest’idea in un modo particolare.
Avevo in mente il passato di Tavolazzi negli Area e mi aspettavo che in studio avesse utilizzato tutta l’effettistica dello strumento così come era abituato a impiegarla con gli Area.
Invece lui, forse anche giustamente, pensò di cambiare e suonò il contrabbasso in modo prettamente acustico e jazzistico.
L’idea di unire al pianoforte il suono di due bassi non era semplice da realizzare, allora ho preferito pormi nell’ottica di un pianista guardone che ascolta un duetto di contrabbassi e qualche volta interviene.

Vorrei concludere questa bella e interessante conversazione chiedendoti qual è il tuo attuale rapporto con con l’etichetta e il collettivo El Gallo Rojo e cosa ne pensi dei musicisti e dei progetti che vi orbitano all’interno…
In effetti sono giunto a conoscere El Gallo Rojo grazie a Zeno De Rossi che suona nel mio quartetto.
Sono tutti ragazzi e musicisti che stimo e ammiro parecchio, dotati di un background culturale e non solo esclusivamente musicale di grande rilievo.
Ognuno a suo modo esprime bene e in modo differente la propria personalità e vorrei far notare che stiamo parlando di almeno una quindicina di persone. Insieme hanno un modo davvero speciale di gestire un’associazione e un’idea dedicate al jazz ma ispirate anche ad altre cose.
Ho sempre nutrito un grande rispetto per tutto quello che hanno finora prodotto e inciso.
Alcune cose poi mi piacciono tantissimo e non sto citarti precisamente quali per non discriminare le altre o fare torto a qualcuno. Ad un certo punto della mia vita mi ero ripromesso di fare e suonare solo ed esattamente quello che desideravo, curando ogni dettaglio dall’inizio alla fine.
Quando fai dei dischi te la vedi di solito con un produttore che può essere più o meno illuminato, nel più fortunato dei casi in sintonia con le tue idee. Però anche in quel frangente c’è sempre una sorta di compromesso che si rende necessario tra me e lui oppure qualcosa del suo pensiero che può alla fine influenzare la mia idea di partenza.
Perciò ad un certo punto ho voluto avere completamente carta bianca e loro me l’hanno data. Inoltre avevano stima e profonda conoscenza del mio lavoro e della mia musica, così con il loro aiuto ho avuto la libertà e la possibilità di fare di volta in volta quello che io proponevo senza avere nessun tipo di problema. È stata una situazione bellissima e così ho potuto fare alcuni dei dischi migliori che io penso di aver mai fatto nel corso della mia lunga carriera.

Intervista a cura di Olindo FortinoSoundcontest
foto copertina di Roberto Cifarelli
FRANCO D’ANDREA THREE “Traditions and Clusters”
con Mauro Ottolini e Daniele D’Agaro
giovedì 19 settembre 2013, ore 20:30
Palazzo Mediceo – Ottaviano
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Guarda l’intervista a Franco D’Andrea realizzata a Pomigliano nel 2005:
parte Iparte II

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